Centoventidue nomi di persone per centoventidue racconti-flash, o meglio, “stralci”. Questa è la misura con cui fare i conti nell’avvicinarsi alla lettura della presente, a dir poco originale, opera letteraria, l’ultima in ordine di tempo di Enrico Nicolò. Autore eclettico che si muove agilmente dalla fotografia alla pittura, dalla poesia alla prosa con lo scopo di partecipare agli altri le manifestazioni artistiche proprie, ma ancor più i moti del suo animo inquieto. Numerose le serie fotografiche da lui realizzate, tra cui Oltre il caos, Tempora et horae, Solitudine del viandante del tempo, Photoblurrygraphs. Una raccolta di poesie dal titolo Prima che (2015) e il suo primo testo narrativo Il sole brilla alto – Racconti brevi (2016).
Sull’orlo dell’infinito nasce dalla consapevolezza di un disagio esistenziale universale su cui l’autore apre una sua profonda riflessione. Attraverso i numerosi personaggi che compaiono negli stralci egli avvia un’indagine accurata, scrupolosa, quasi martellante sulla natura dell’animo umano e sulle sue pulsioni. Con la forza e la capacità di analisi di scatti fotografici in successione, atti a captare anche le sfaccettature più recondite, le sfumature più nascoste. Quella stessa facoltà di scavare nella psiche tipica dei grandi scrittori russi, quali Dostoevskij, Tolstoj e Pasternak, giustifica il ricorso dell’autore alla scelta di nomi di persona tutti di origine russa. E accanto ai nomi anche gli ambienti, il paesaggio e le atmosfere che sono sì immaginari ma che trasportano il lettore nella steppa, nella tundra, nelle estese e fredde pianure, negli ambienti domestici solo apparentemente a noi lontani. Non so se dietro ogni personaggio s’intravede parte dello scrittore stesso. Conoscendolo mi piace pensarlo perché condivido appieno il pensiero di Lucian Freud, uno dei maggiori pittori figurativi del Novecento, che sosteneva che in fondo “dietro ogni mia opera si configura un mio autoritratto”.
Tre sono i personaggi che più si avvicinano a questa mia riflessione:
Zakhar, l’uomo che leggeva i cuori nel villaggio. Egli scrutava le persone, il loro modo di camminare, di sedersi, di muovere le mani, di respirare. Zakhar guardava i loro occhi, che rivelavano l’infinito dolore dell’uomo, e sapeva indagare l’anima perché forte della sua esperienza esistenziale.
Tikhon, lo scrittore: «La scrittura è il mio diario di viaggio. Il giacimento dove si sedimenta il mio sentire».
Kliment, l’itinerante dei sentimenti, amava il gusto dolceamaro della solitudine quasi fosse un’amica fedele su cui contare, che gli dava sollievo sotto forma di autocompiacimento dell’essere. «Ma […] il sapore agrodolce della solitudine era cosa per palati forti […] per gente solida, stabile, stanziale […] E Kliment non era nulla di tutto questo […] Lui era […] una persona fragile […] bisognoso di amore […] non rinunciava affatto a comunicare con gli altri […] Aveva periodicamente bisogno di segnali di considerazione da parte delle creature umane che costituivano l’universo attorno a lui […] necessitava […] di affetto e comprensione. Di questo viveva, tutto sommato, e questo perseguiva».
La conoscenza diretta dell’autore, grazie alla collaborazione professionale che dura ormai da tre anni, cioè dalla prima edizione del “FLIC – Festival Lanciano In Contemporanea” in cui ho avuto il piacere di conoscerlo per la sua originale mostra fotografica Beyond the Chaos, rafforza la mia suddetta convinzione.
La solitudine è una delle tematiche principali dell’intera raccolta di Nicolò: «l’essere umano è fondamentalmente solo. Ineludibilmente solo. Da solo viene al mondo. Spesso affronta nella solitudine i propri drammi più intimi e segreti. Solo è sovente costretto a prendere decisioni importanti. Solo, infine, termina la sua esistenza» (Oleg). Sola è Vladlena, l’anziana con problemi di vista; avvolta in una dolce solitudine è Dasha, che vive però in pace con se stessa perché ha donato agli altri tutto quello che poteva, senza nostalgia né rimpianti; solo è Krasimir che fugge dal mondo e dagli altri per vivere ramingo tra le montagne; solo è Zosim che a sessantaquattro anni parte per la grande foresta temperata, tra querce, aceri e tigli, lontano dall’indifferenza e dalla presunzione, dagli inganni e dalle bugie.
La solitudine è strettamente legata a un altro tema che rappresenta il leitmotiv dell’opera e cioè l’incomunicabilità. L’impossibilità di comunicazione è percepita dall’autore come una vera tragedia per l’essere umano, dunque per l’intera umanità. Il mondo degli adulti è difficile e i dialoghi tra loro faticosi e sofferti per la diversità di pensiero, per la diversa sensibilità o cultura, per diversi sistemi di senso e di codifica della parola. Il messaggio dell’uno può essere decifrato in modo anomalo dall’altro. E questo anche nel campo degli affetti e dell’amore, dove si consumano «i più dolorosi conflitti […] devastanti incomprensioni e malintesi» e le più illusorie e avvilenti attese (Silvestr). Non c’è comunicazione tra Bogdan e Agnesa nonostante numerosi litigi e rappacificazioni, lunghi discorsi, chiarimenti, tentativi di cambiamento. C’è una “differenza del sentire” tra di loro. Fallito per incomunicabilità il rapporto tra Ivan e Irina, finito senza appello il loro amore. Eppure a Ivan Irina appariva bellissima. Nessun dialogo tra l’indifferenza di Tatiana e il dolore profondo e sconosciuto di Aleksandr. Tamara è avvolta nel suo pesante mantello in una angusta e fredda sala d’attesa di una stazione mentre Dmitri la guarda assorto nel loro ultimo incontro. Anche se “si cresce per distacchi, tutto ha inesorabilmente fine”.
Leggendo tra le righe non è difficile comprendere che dietro la solitudine e l’incomunicabilità c’è quasi sempre una mancanza d’amore. E l’autore si sofferma come non mai a guardare questa ineguagliabile e insopprimibile componente dell’animo umano. E a scrivere intorno all’amore. L’amore per la vita, l’amore per gli altri, l’amore per la propria compagna, l’amore per l’arte, l’amore per Dio che è Lui stesso Amore. Tutti ne hanno bisogno perché l’amore “ti allarga il cuore”. Va donato quando le persone ci sono accanto e ne hanno bisogno. Finché si è in tempo. Senza chiedere nulla, con atteggiamenti di misericordia e di perdono. È rinuncia a sé per l’altro. È rispetto per la vita, che va amata anche nei momenti più bui, nell’indifferenza, nella solitudine, nella delusione, nello sconforto. “Le vent se lève!… il faut tenter de vivre!” (Si alza il vento!… dobbiamo provare a vivere!) scrive Paul Valéry.
L’amore di coppia è per l’autore sentimento, sensualità, progettualità e soprattutto ricerca della reciproca felicità attraverso la donazione di sé. Se la delusione relativa a un comportamento inaspettato “schiaffeggia duramente il volto come un vento gelido, un sorriso d’amore scalda il cuore come il vento d’estate accarezza le messi”.
L’autore si sofferma, altresì, sull’amore deluso, sull’amore taciuto, su quello incompreso, sull’amore proibito, su quello lontano. “L’amore incontenibile, irrefrenabile, travolgente ed esigente come un torrente impetuoso e come l’irruenza dei suoi flutti”.
C’è un percorso che Nicolò segue nel suo cammino attraverso l’esistenza dell’uomo. È una strada in salita che dal dolore si solleva con leggerezza verso la felicità. L’autore riconosce all’arte una grande forza di redenzione. L’arte in tutte le sue forme è racconto di pensieri, inquietudini, sofferenza e gioia. È soprattutto “il dovere” nei confronti della bellezza che ci aiuta a vivere e a vincere la solitudine. L’arte, dunque, come consolazione. È testimonianza, eredità, un piccolo passo verso l’eternità. Si muove tra la sensibilità di pochi e l’indifferenza di tanti. È aspettativa che gli altri facciano tesoro del sentire dell’artista riuscendo a leggere oltre la rappresentazione. Mentre la salita continua e “il metronomo scandisce incessantemente l’esistenza”, impedendo il ritorno del tempo passato se non nei ricordi, con la morte che può arrivare improvvisa in un giorno di festa o in una giornata di sole, crescono nell’uomo il desiderio e la gioia dell’arrivo sulla cima, sulla vetta dove poter spaziare sull’orizzonte e assaporare la sensazione di infinito, senza perdere la giusta dimensione di sé, piccolo punto nell’universo.
Con la sua fede Artem nell’ora del tramonto, dopo che “l’orchestra ha suonato”, stringe nel pugno una piccola croce di metallo abbandonandosi tra le braccia di Dio. Ruslan, il sapiente, uomo saggio e di fede, ci esorta a “scrivere bene il quaderno bianco della vita”, a viverla in pienezza, a non sciupare il tempo, a non opporre resistenza ai disegni di Dio, a essere sempre noi stessi, a non aver paura di sbagliare, a non spegnere l’entusiasmo negli altri, a vivere il presente senza aspettare qualcosa che deve accadere, ad amare quello che si ha e a lasciarsi amare, a perdonare le offese, ad amare incondizionatamente Dio, a ricercare la verità.
Per Nicolò, uomo di fede, soltanto la fede può vincere la solitudine, può ergersi di fronte all’infinito dell’enigma, del dubbio, della limitatezza e della finitezza. Insieme all’amore e alla preghiera essa ha un’azione salvifica sulla nostra esistenza.
Posso concludere dicendo che in questa sua ultima opera lo scrittore ha modellato, attraverso un fraseggio essenziale e pregnante e un lessico ricco e appropriato, i suoi personaggi, “le comparse e le scomparse”, lasciando nel lettore uno stupore, una meraviglia, la stessa che provò Pavlina la prima volta che si trovò al cospetto del mare.
Angela Troilo
Angela Troilo, Prefazione, in “Enrico Nicolò, Sull’orlo dell’infinito – Stralci immaginari, Palombi Editori, Roma, 2017”, pagg. 9-12.