Può la fotografia, mostrando il Mistero, interferire con il messaggio al punto da renderlo più debole? La questione non è irrilevante se è vero che lo strumento può aggiungere o sottrarre, affermare o negare la presenza di qualcosa o di qualcuno. Con il suo svelare o nascondere, la fotografia – che si porterebbe dietro una tara della purezza ontologica che la pittura non avrebbe – può infatti accentuare o dissolvere l’idea stessa del sacro inteso come soprannaturale, di un qualcosa che è allo stesso tempo rappresentabile ma anche indescrivibile, non solo perché legato al Divino, ma perché specificamente riferibile alla sfera più intima dell’esperienza.
Enrico Nicolò si sottrae a questo rischio mettendo subito in chiaro, con una netta scelta tecnica e narrativa, che non intende invadere questi due campi. Ma anzi sembra porre una distanza di sicurezza tra gli eventi che raffigura e chi osserva. Un allontanamento che non vuol dire neutralità, bensì rispettoso distacco da qualcosa che va oltre il visibile. Da contemplare prima ancora che da comprendere.
Anche per questo la scelta degli episodi dei Vangeli, secondari ma pur sempre squarci aperti sul mistero dell’incarnazione, non solo traccia un perimetro semantico, ma ci dice soprattutto la delicatezza dello sguardo, che non azzarda immagini grandiose, ma si sofferma sulla quotidianità. Una quotidianità non statica, ma in movimento. Le immagini – volutamente senza tempo – invitano a seguire quanti ebbero il dono di poter vedere, loro sì, l’invisibile, il Dio fattosi uomo. A ricalcarne le orme su polverosi deserti, su sponde di acque placide e infide al tempo. Con discrezione. Spazi indefinibili in cui si muovono figure altrettanto indefinite nelle quali riconoscersi, come cauti e curiosi pellegrini. E del resto non è questa la parabola dell’uomo su questa terra, in costante cammino alla ricerca di se stesso, di un senso alla propria vita?
Con un’operazione di sostanziale sottrazione, che rende al minimo la scena quasi a non voler influenzare lo sguardo, Nicolò ci suggerisce un orizzonte più alto. Lascia alla nostra sensibilità il compito di riempire gli spazi e di incarnare i personaggi. Se, come afferma Roland Barthes, “una foto è sempre invisibile: ciò che vediamo non è lei”, l’artista ci pone dinanzi alle nostre conoscenze e ci sfida a completare un quadro da lui solo abbozzato. Cosicché la sua ricerca diviene anche la nostra.
Gaetano Vallini
Gaetano Vallini, Un orizzonte più alto, in “Enrico Nicolò, Sgridò i venti e il mare – Intuizioni di immagini dai Vangeli, Palombi Editori, Roma, 2013”, pag. 87.