Tempo e spazio sono categorie umane, nel senso che l’uomo vive nel tempo, come nello spazio, pensandolo secondo la propria cultura e la propria soggettività. Cosicché l’inesorabilità oggettiva dei giorni e delle notti che si succedono, delle stagioni che cambiano, e con esse la natura, è reinterpretata variamente nelle diverse culture e diversamente sperimentata negli individui. Il tempo, in particolare, ha sempre inquietato l’essere umano. Lo spazio si può, almeno in parte, dominare: si conquistano i territori, li si ordina, li si domina, almeno finché la terra non tremi, la tempesta non sconvolga i mari, l’alluvione non travolga gli argini. Invece la sabbia nella clessidra non inverte la caduta, l’orologio non torna indietro, e solo l’animo, mai il corpo, ridiventa bambino. Se l’uomo è in grado di nominare i tempi, di moltiplicare i calendari e le scansioni, di diversificare i riti stagionali, non può riportare in vita chi è tra-passato con il tempo, né può fermare l’attimo felice: e la stessa memoria, dice il poeta, è una moneta che non è mai la stessa. Crono è il dio greco che divora i suoi figli, tempus edax rerum (Ovidio, Metamorfosi, XV, 234), cioè vorace di cose, vorace di tutto, perché tutto è res. L’uomo greco si percepisce pertanto come creatura divorata, come foglia che rapida scolora, come effimero, e ripete spesso che il non esser nati, non entrare nel gioco del divenire che dà e toglie, è sorte migliore del nascere per morire: Non esser mai! Non esser mai! Più nulla, / ma meno morte, che non esser più!, così grida la dea Calipso, cullando il cadavere di Odisseo, nella superba reinterpretazione del mito compiuta da Pascoli nei Poemi Conviviali (XXIV, 52-3).
L’idea di un Dio onnipotente, giusto e buono, creatore del tempo e dell’uomo, e quindi signore di entrambi, che il cristianesimo eredita dall’ebraismo, ha offerto all’uomo occidentale una prospettiva diversa e una nuova speranza. Lo scorrere del tempo è allora segnato dal kairos, il momento opportuno, che non è più solo l’attimo della decisione fatale o del godimento pieno da assaporare, come era per i greci, bensì sta a significare il tempo in cui la salvezza di Dio viene offerta all’uomo e lo mette di fronte a una scelta per l’esistenza, al buon uso del tempo, per dirla con un testo paolino (Ef 5,16). E tuttavia l’ansia di fronte alla morte che è in ogni mutamento, al dubbio ricorrente che la fine non sia anche un inizio, inquieta anche l’orizzonte dell’uomo di fede.
Questo scenario complesso di riferimenti, insieme poetici, religiosi, filosofici, intimistici, plasma il linguaggio fotografico di Enrico Nicolò. Ecco dunque la serie “Tempora et horae”, dichiaratamente consacrata alla sua personale percezione ed esperienza del tempo. Un tempo che, sempre per dichiarazione dell’artista, è comunque redento, aperto all’oltre, e tuttavia immerso in un’atmosfera di attesa non pacificata. Lo rivela la sproporzione fra la piccolezza della figura umana e la vastità dello spazio, la costante negazione del volto, che, con la sua espressione, potrebbe dare un senso all’insieme, e invece rimane nascosto. L’espressività è semmai affidata alle proporzioni dell’orologio che la figura umana sorregge o trascina, a volte deformato alla maniera di Dalì, ma talvolta anche inserito su un supporto separato, entità a sé stante, compagno tanto silenzioso quanto implacabile. Poco dopo la metà della serie fotografica, protagonista diviene una figura femminile. Nella sequenza precedente e in quella successiva la figura maschile, che cammini o sieda, esprime comunque una staticità, un’attitudine pensosa e quasi succube. Non così la donna, il cui dinamismo intesse un dialogo e impone un moto alla natura che la circonda. Non so quanto questa diversità corrisponda a una riflessione di Nicolò sulla differenza di genere. Di certo appare un omaggio alla donna che, nell’ultima immagine, sembra fare del tempo un suo trastullo e divertimento, trattandolo con quella leggerezza negata alla figura maschile. Insieme con la donna nella sequenza fotografica fa la sua comparsa il mare, che diventa sempre più incombente nell’ultima serie di foto: la figura maschile passa dalla contemplazione della distesa marina all’immersione in essa fino a scomparire. Nell’Apocalisse di Giovanni, testo ben noto a Nicolò, la discesa della Gerusalemme celeste, simboleggiante l’eternità della dimora di Dio con gli uomini, avviene dopo la comparsa di un cielo nuovo e una terra nuova cui non corrisponde un nuovo mare, perché, anzi, il mare non c’è più (Ap 21,1). Che senso ha lo scomparire della figura umana in un mare destinato esso stesso, secondo il veggente, a scomparire, perché simbolo della mutevolezza umana? La risposta è ambigua e aperta a una molteplicità di sensi, come deve essere quando l’immagine è poesia.
Emanuela Prinzivalli
Emanuela Prinzivalli, Introduzione al tema Tempora et horae, in “Enrico Nicolò, Oltre il visibile, Polyorama Edizioni, Modena, 2013”, pagg. 114-115.