C’è ancora chi sostiene che l’arte sacra cristiana debba sempre essere di grande immediatezza comunicativa, comprensibile a tutti, anche agli analfabeti e ai bambini. In vari momenti della sua storia, è vero, per ragioni pastorali la Chiesa ha chiesto agli artisti precisamente queste caratteristiche.
Ma i contenuti della fede non sono tutti traducibili in immagini concettualmente e visivamente “nitide”. Nel Vangelo di Marco lo stesso Gesù, parlando alla folla, si chiede: “A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio e con quale parabola possiamo descriverlo?” (Marco 4,26). Cioè Colui che è l’eterna Parola di Dio (Giovanni 1,1) non trova parole umane per esprimere la misteriosa verità che è venuto a rivelare. In questo caso Egli usa la parabola del granello di senape, che, piccolissimo, diventa poi un albero così grande che “gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra”. Ma l’evangelista commenta: “Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa” (Marco 4,33-34). Ecco allora il senso cristiano delle fotografie di Enrico Nicolò, che – pur fuori fuoco – “spiegano” — o, meglio, conducono in un luogo “privato” dove le spiegazioni non servono più, perché si sa di stare con Cristo.
Qualcuno chiederà forse: ma questo artista è credente? La risposta, fuori fuoco ma onesta, è che la fede è una terra familiare a tutti gli artisti, i quali ogni giorno devono affrontare la fatica di tradurre intuizioni ed idee, impressioni ed osservazioni, concretizzandole in ‘opere’. Sanno bene che l’unico modo di perfezionarsi è darsi da fare, buttarsi, rischiando il fallimento — lo spreco di tempo, di materiali, d’energia: rischiando addirittura il ridicolo. Meglio di altri, capiscono come in Abramo “la fede cooperava con le opere” e “per le opere divenne perfetta” (Giacomo 2,21-22).
Gli artisti poi capiscono la dinamica della fede a un livello ancora più essenziale, identificandosi con il ‘rischio’ e ‘pathos’ dello stesso Artefice Dio. Sperimentano come intima speranza e necessità e sofferenza il desiderio di esternare un’idea che sfugge, un concetto “unico, molteplice, sottile, mobile, penetrante” (Sapienza 7,22) che magari sembra ricapitolare tutto ciò che l’artista sa di avere dentro, e che egli vuole, anzi deve condividere con altri, per farli vedere con i loro occhi e contemplare e toccare con le loro mani una cosa che, in lui “c’era fin da principio” (1 Giovanni 1,1). Non v’è artista che non si identifichi col Creatore che rischiò tutto pur di rendere la propria “vita… visibile” agli uomini (1 Giovanni 1,1-2).
La fede è in sé un’arte. In primo luogo è un dono, ma un dono che, come il talento, chi lo riceve deve sviluppare. Non parlo qui de ‘la fede’ intesa come sistema, mirabile compendio di credenze e tradizioni, ma dell’atto di fede, del salto di fede, del rischio per cui si passa da un’esistenza ‘artigianale’ fatta di cause e effetti, alla vita sperimentata come arte, vissuta come un’opera ‘ispirata’, aperta alla gratuità, informata dalla grazia. Le cause e gli effetti possono esigere vendette e guerre, imprigionando l’uomo; la grazia, che è verità gratuitamente donata, perdona e rende liberi.
Ecco, le “intuizioni immaginifiche” di Enrico Nicolò testimoniano questa grazia liberatrice, questa verità donata che cambia la vita.
Timothy Verdon
Timothy Verdon, Fuori fuoco e fede, in “Enrico Nicolò, Sgridò i venti e il mare – Intuizioni di immagini dai Vangeli, Palombi Editori, Roma, 2013”, pagg. 10-11.