Nella serie di immagini “Solitudine del viandante del tempo”, Enrico Nicolò persegue la sua sperimentazione alla ricerca del rapporto tra la natura titanica, misteriosa e l’uomo, che in questa sproporzione si fa sempre più piccolo, quasi indifeso, in un’esplorazione che riecheggia la pittura romantica di Caspar David Friedrich. Qui, invece, il realismo fotografico diventa traslucido e incantato e si trasforma in una sfera di irrealismo: l’invito è a raccontare non ciò che si vede ma la vera essenza nascosta della realtà. Quindi le entità che si vedono sono talmente trasfigurate che simboleggiano non la realtà empirica ma la realtà assoluta.
Nelle fotografie di Nicolò l’uomo è sempre più lontano e decontestualizzato dall’ambiente urbano e culturale, ma di culturale porta sempre dentro di sé le vette più alte delle domande filosofiche; domande che da sempre hanno ossessionato l’essere umano circa la sua origine, circa il senso della vita e il mistero della morte. Insieme alle radicate implicazioni che allignano nell’uomo contemporaneo: ora metafisiche o religiose, ora razionaliste se non addirittura nichiliste.
In alcuni scenari troviamo grandi esempi di sublime, come nella fotografia nella quale la spiaggia e il mare sono ridotti al minimo, perché tutto lo spazio è afferrato dallo sconfinato cielo tumultuoso e dal gusto dell’infinito. Un argomento da sempre caro ai romantici, dove una figurina di donna anziana di spalle allo spettatore si perde nell’immenso, contempla l’assoluto e invita a unirci anche noi alla contemplazione: questa, null’altro è se non il viaggio verso l’interiorità delle cose. Dunque da semplici spettatori diventiamo magicamente contemplatori della contemplatrice che a sua volta contempla l’infinito, in una sorta di gioco di specchi incrociati. Nel suo mondo visionario Enrico Nicolò sembra suggerirci: “Chiudete gli occhi all’esteriorità e apriteli all’interiorità”. Nel suo silenzio, nel suo atteggiamento metafisico non c’è rumore, non c’è dinamismo, tanto indispensabile a quella fotografia fintamente spettacolare eppure svuotata di sentimento. Qui, al contrario, è tutto fermo. Bloccato. Quasi a congelare le avventure della vita quotidiana e il suo brulicante tramestio, come a catturare (finalmente) l’uomo sui valori dello spirito che sono eterni e indistruttibili. Quindi immobili.
Alcuni personaggi di certi scenari assomigliano a figure che evocano le sembianze degli individui-birillo simulacri dell’uomo di dechirichiana memoria. Come quelle sono posizionate in territori deserti, quasi al confine dell’inabitabilità. Luoghi che sembrano planati da altri mondi, dove la vita è sospesa, incantata, e dove l’artista filosofo anela al viaggio dell’anima. Per conoscere il labirinto degli enigmi, dove molto spesso nella fotografia di Enrico Nicolò si trova il non essere: pensiamo a quanta carnalità vi sia assente, rispetto a tutti gli altri modi e mode del fotografare. Le immagini della “Solitudine del viandante del tempo”, costruite con grande potenza evocativa, sottendono una peculiarità tanto insolita quanto singolare: ovvero quella di mostrare l’universo interiore del fotografo.
Mostrare, appunto. E non dimostrare a tutti i costi qualcos’altro, attraverso la falsa etica di un ambiguo dovere di testimonianza. Dietro l’ombrello di questa presunta morale la fotografia non esiste più; è solamente una sorta di retorica della sventura, tra guerre, disastri e carestie da esibizione. Come tale, è molto improbabile che quest’ultimo utilizzo della fotografia possa assurgere a fattore di espressione artistica, perché è la stessa personalità del fotografo a risultare invisibile e priva di una qualsiasi riconoscibilità culturale. Ne consegue, ormai al novantacinque per cento della produzione di immagini, un’omologazione dello sguardo frutto di un apparato di consumo della fotografia sempre più distratto e per nulla attento alla meditazione. Il quale instilla l’obbligo di riscontrare, calcolare e giudicare per forza in base a ciò che una realtà dovrebbe rappresentare. Per chi osserva un’immagine, questa è ormai un’attività di registrazione meramente passiva e meccanica.
Suggerire invece la propria interiorità dell’inconscio, appare esercizio di raro valore intellettuale. Lontano dalle suddette codificazioni vigenti, l’autore persegue la cosa apparentemente più incomprensibile: fotografare ciò che lo sguardo abitualmente non vede. Tutte le scene e gli scenari di questo libro non hanno riferimento geografico o datazione identificativa, ma spaziano libere in una dimensione dal carattere atemporale, quasi atavica e primitiva. E in questa caducità della vita e della natura piomba l’uomo, in ogni tempo viandante spaesato con la sua solitudine. Enrico Nicolò è riuscito a svelarlo con la fotografia, regalando a tutti noi un’emozione di rara intensità.
Andrea Attardi
Andrea Attardi, Introduzione al tema Solitudine del viandante del tempo, in “Enrico Nicolò, Oltre il visibile, Polyorama Edizioni, Modena, 2013”, pagg. 44-45.