In un colloquio avuto qualche tempo fa, Enrico Nicolò mi spiegava la sua idea di arte, di come essa debba essere, in sintesi, manifestazione dello spirito che si oggettiva in espressione; poco importa, aggiunse in quell’occasione, se tale espressione debba riversarsi nel ritmo della scrittura o trasfigurarsi in immagine. Solo dopo che l’incontro fu concluso e davanti ad alcune delle sue fotografie, compresi appieno quello che egli voleva dirmi. Mi sovvenne allora una frase epigrammatica che mi aveva ripetuto durante la nostra conversazione: “Fotografo perché ho qualcosa da scrivere”.
Nicolò è un fotografo-artista che ricorre nondimeno alla scrittura per meglio delineare l’impalcatura concettuale e teorica che soggiace alle sue immagini. Dunque per comprendere la sua produzione artistica non si può non considerare come altrettanto cruciale la sua riflessione sulla propria poetica e sulla fotografia e l’arte, più in generale, che da tempo persegue, con rigore e discrezione, sulle pagine di alcuni giornali e riviste. Di mestiere è un ingegnere, ma la sua vocazione per la fotografia è vissuta da alcuni anni a questa parte in maniera pressoché totalizzante; egli non si risparmia davanti a lunghe ed estenuanti sedute fotografiche pur di vedere espressi in immagini i suoi paesaggi concettuali e “interiori”. Il suo amore per l’immagine tout-court è antico, tuttavia si fa strada in lui la determinazione a fare fotografia solo in età matura, e dopo una laboriosa incubazione. Nel frattempo è avvenuta una rivoluzione: l’avvento del digitale ha riversato nella nostra vita quotidiana e nel nostro immaginario ancora più immagini di quanto non fosse in passato. Ma Nicolò rimane legato al procedimento chimico-analogico, e dunque a una mentalità “retrò”, potremmo dire, che avversa il ritmo di questi nostri tempi sincopati e irriflessivi e da cui i molti fan del digitale, siano essi professionisti dell’immagine o semplici foto-amatori, si sono lasciati sedurre. Per Nicolò, al contrario, fotografare secondo le modalità imposte dal procedimento analogico, corrisponde a un “rito”, a “uno stile di vita” irrinunciabile in quanto imprescindibile dalla pratica fotografica.
Ma perché proprio la fotografia? Perché essa ha in sé un dono che la scrittura per quanto, come già detto, lungamente corteggiata da Nicolò non possiede, ovvero quella miracolosa capacità di sintesi che fa sì che un’immagine si sveli agli occhi di chi l’osserva come nessuna parola può fare. Lo stesso Nicolò scrive a tal proposito: “Fotografo quello che non sono in grado di dipingere, ciò che richiederebbe troppo tempo per essere scritto e quello che è impossibile raccontare”.
Ma andiamo con ordine, tentando di riuscire in un compito non poco arduo, che è quello di ricostruire nello spazio di poche pagine il suo interessante itinerarium mentis. A un primo colpo d’occhio, notiamo come uno degli elementi più ricorrenti della produzione artistica di Enrico Nicolò sia il paesaggio. Tuttavia, questo interesse per la natura non si pone in sudditanza a finalità descrittive o documentaristiche. Di fronte a immagini come Sospensione – 4 (2011), Sospensione – 2r (2011) o Riva (2009), non è difficile comprendere questo punto. I paesaggi, spesso marini o rurali, vengono sottoposti dall’autore, attraverso il ricorso a certi espedienti tecnico-stilistici, a una sorta di processo di scarnificazione e astrazione, in questo complice il bianco e nero per le sue potenzialità drammatizzanti e astrattizzanti.
La scelta del bianco e nero non è dunque affatto casuale. Essa risponde a un preciso imperativo: quello di piegare la realtà, nella fattispecie il paesaggio, a un rigoroso formalismo che la prosciughi dei suoi elementi più prosaici. Quelli di Nicolò sono paesaggi mentali, ideali, archetipici, e le didascalie, spesso molto significative, confermano questa attitudine, infatti esse non ci indicano mai un luogo preciso, giacché questo sarebbe del tutto fuorviante. Il fotografo predilige i campi lunghi, per usare un termine dal gergo cinematografico, le vedute ampie in cui, e non sorprende, le tracce della presenza dell’uomo sono pressoché inesistenti. Solo in una foto come Al limite del bosco – 2 (2008), la presenza di un casolare ci ricorda l’uomo e la sua opera incessante di sfruttamento e lavorazione della terra. Il cammino espressivo e concettuale del fotografo prosegue con la serie, compiuta tra il 2008 e il 2012, dal titolo Solitudine del viandante del tempo. Qui compare la figura umana, sola, di spalle, colta in atteggiamento contemplativo dinnanzi allo stupefacente spettacolo della natura. Gli scenari naturali vengono “trasformati”, anche qui, dal bianco e nero che ne enfatizza le geometrie, le masse, i volumi.
Già in questa serie – altrove diventerà persino più lampante – trapelano alcuni dei nuclei tematici attorno a cui si concentra la produzione artistica di Nicolò, ovvero quelli della limitatezza e finitezza umana di fronte alla forza generatrice e distruttrice della natura, e ancora il concetto, qui essenziale, come suggerisce il titolo della serie, della solitudine umana. Due immagini in particolare meritano di essere commentate e che riteniamo essere quasi speculari: Route 17 bis (2012) e Pensiero – 6 (2011). Nella prima vediamo un uomo di spalle nel bel mezzo di una strada, che punta dritta verso uno scenario montano. Nella seconda, invece, una donna sempre di spalle che avanza su un pontile che si protende verso il mare. In entrambe la linea dell’orizzonte divide a metà l’immagine, nella prima poi, la natura appare minacciosa; nella seconda invece essa è più rassicurante, tuttavia non v’è dubbio che l’una faccia da pendant all’altra, e mentre siamo lì che fantastichiamo su queste due foto (non è forse questa una delle “virtù” dell’immagine fotografica, quando essa sa emozionarci, ossia quella di permettere a chi la guarda di raccontarsi una storia che trascenda i limiti della “cornice” e la volontà dell’autore stesso?), ecco che sopraggiunge un pensiero: perché questo uomo e questa donna non stanno assieme a farsi compagnia lungo il sentiero non sempre agevole della vita? Perché, di nuovo ci avverte il fotografo, siamo fondamentalmente dei “viandanti solitari”. Il paesaggio diventa, così, la fonte e lo specchio del vuoto ossessivo che attanaglia l’esistenza umana. Viene allora in mente l’universo figurativo del regista Michelangelo Antonioni, che Nicolò non nasconde di conoscere e ammirare. Antonioni, lungo tutta la sua carriera, ha affidato un ruolo fondamentale al paesaggio e all’ambiente, investendoli di molteplici significati simbolici. Volendo semplificare, essi fanno, così come avviene, mutatis mutandis, nelle foto di Nicolò, da cassa di risonanza ai sentimenti di solitudine e incomunicabilità dei suoi protagonisti.
In Oltre l’infinito sublime, serie di fotografie realizzate nel 2011 e nel 2012, ritornano i leit-motiv del lessico estetico del fotografo: la figura umana e la natura. Sul piano semantico, invece, entriamo in un contesto che afferisce alla sfera del trascendente. Qui si accentua “il senso dell’oltre”, come ha scritto il fotografo, fino a farci sentire una sorta di tensione escatologica. Ma si badi bene, l’infinito per Nicolò non abita nelle cose, bensì in una remota e oscura lontananza.
In ciascuna di queste foto campeggia la figura femminile, dignitosa, austera, abbigliata in modo quasi atemporale, o meglio alla maniera della pittura romantica tedesca della prima metà dell’Ottocento che fece, com’è noto, della categoria estetica del sublime una sorta di stella polare, di idea-forza. I rimandi alla pittura di Caspar D. Friedrich, nella fattispecie, appaiono evidenti, laddove il fotografo riprende dai suoi celebri dipinti alcuni tòpoi come il gusto scenografico dei paesaggi e l’immersione panica nella natura. Una natura, quella nelle foto di Nicolò, talora minacciosa, volta a suscitare sentimenti di paura e soggezione, si veda La donna del promontorio – 2 (2011), talora più rassicurante come in La ragazza del fiume – 2 (2011). Ecco allora che di fronte a queste immagini par quasi di udire i celebri versi del sonetto L’Infinito di Giacomo Leopardi, nel quale il poeta seppe mirabilmente tradurre la sua raffinata esegesi del sublime con parole come: “sovrumani silenzi”, “profondissima quiete”, “ove per poco il cor non si spaura”.
Anche nella serie Oltre il caos, poco più di venti immagini realizzate dal 2010 al 2012, è ravvisabile una continuità di ispirazione e contenuti. Qui, Nicolò prosegue con rigore concettuale la sua riflessione sul senso ultimo dell’esistenza, espressa in simboli attraverso i dispositivi del linguaggio retorico-visivo. Ecco allora che ritroviamo la persona, ancora sola, in azioni e atteggiamenti improbabili in quanto assunti in contesti inconsueti e spiazzanti, ove predominano atmosfere in bilico tra il surreale e il metafisico. In immagini come Ricercare – 11 (2011) e Ricercare – 6 (2011), l’autore rende manifesta la sua necessità conoscitiva, ovvero comprendere ciò che non è dato di sapere attraverso i sensi, per questo il suo alter-ego è in compagnia di una scala. La scala è il mezzo figurato e simbolico attraverso cui “ascendere”, passare dal mondo dei sensi agli stati superiori della coscienza. Inoltre, può essere utile in tal sede ricordare come la scala sia nella mistica, come nella cabala e nell’alchimia, un fondamentale simbolo, mediatore tra piano terrestre e piano celeste.
In immagini come Scrivere – 4 (2010) e Leggere – 3 (2010), la persona compie le azioni di scrivere e leggere, che qualificano l’uomo in quanto essere pensante, animale simbolico capace di attività ermeneutiche e cognitive, nientedimeno che in mare. Non è difficile capirne il motivo: tutto nasce dall’acqua, secondo le cosmogonie arcaiche. Essa è sostanza primordiale e principio di ogni generazione; mentre nelle cosmogonie più tarde (Empedocle) con aria, fuoco e terra, l’acqua è uno dei quattro elementi o componenti primari del mondo. L’acqua poi appartiene fin dall’antichità ai riti di purificazione. Tutto questo deve aver evidentemente ispirato Nicolò nel concepire molte delle immagini di Oltre il caos.
Infine, col suo ultimo lavoro, Tempora et horae (2012), le complesse diramazioni della poetica di Nicolò acquistano piena fisionomia.
Qui egli indaga il tema del tempo, o meglio, la sua personale percezione ed esperienza del medesimo. Come le altre, anche questa serie di immagini, che ritrae di volta in volta figure maschili e femminili con degli orologi, si presta a una lettura figurata, e metaforica. Di fronte all’incedere inesorabile del tempo, al dolore del divenire, nonché allo stato mortale dell’uomo, Nicolò oppone il rimedio teologico-metafisico. Ancora una volta le sue parole ci giungono in aiuto, ecco infatti cosa scrive a tal proposito: “Sebbene lo spazio sia talora angusto, perché il passare del tempo rende stretta la strada, è l’infinitudine a imporsi”. Dunque, per salvarsi dal “gioco” terribile e reo del divenire, egli con le sue immagini, sempre ben congegnate, si apre definitivamente alla dimensione dell’infinito, cioè dell’eterno, dell’immortale, dell’immutabile.
Annarita Curcio
Annarita Curcio, Introduzione generale, in “Enrico Nicolò, Oltre il visibile, Polyorama Edizioni, Modena, 2013”, pagg. 10-13.