Conosco Enrico Nicolò dai tempi del liceo. Eravamo compagni di classe, legati da buona amicizia. Poi almeno trenta anni di silenzio, ciascuno impegnato nella propria vita. Quindi la riscoperta reciproca, grazie al suo versante artistico, di fotografo e di poeta.
Mi è molto facile, e questa è una fortuna che capita a chi ha conosciuto un amico nella fase decisiva della formazione, riannodare, se non le vicende minute dell’esistenza di Enrico, le fila della sua sensibilità. Posso scorgere con chiarezza come abbia messo a frutto, in queste poesie scritte nell’arco temporale che va dallo scorcio finale dei trent’anni al superamento della soglia dei cinquanta, la sua indole meditativa, lasciandola nutrire dall’esperienza e da letture ininterrotte. Da qui la capacità di creare una poesia scabra e insieme capace di immagini potenti, con una versificazione che tiene conto degli esiti migliori della poesia novecentesca, e con un sottofondo di echi biblici che ne accresce la profondità.
Mi spiego meglio. Come ben dice Stefano Nicolò nella prefazione, il protagonista di questa poesia è il tempo, o meglio, il sentimento del tempo che scorre inesorabile, quasi maligno. Non a caso la raccolta è preceduta da una delle più significative foto di Enrico, un grande orologio su uno sfondo in apparenza infinito, a indicare l’incombere della fine sul desiderio dell’essere umano di durare per sempre. L’orologio però non ha lancette e questo mi sembra significhi che l’essere umano ha la possibilità in se stesso di creare il suo tempo e i suoi tempi, in attesa di capire e, finalmente capendo, di vivere una pienezza di vita e di relazioni che nel quotidiano troppo spesso si spegne in silenzi e in avarizie di affetti mancati. Nelle venti poesie predomina il sentimento di quello che si è trascurato di essere e di compiere (così, esplicitamente, in Sospensioni è detto: «Abbiamo visto i vicini, / deviato i passi. / Finto di non udire / echi di conflitti. / Grida di aiuto mai giunte a noi. / Abbiamo ritirato le mani, / accorciato le braccia.»), e ciò dà un tono di malinconia, un ripiegamento sulla memoria e il ricordo, ciononostante rischiarato da un sottofondo di fiducia nella dimensione eterna cui si è destinati. È una prospettiva, questa, già presente nella prima poesia della raccolta, Dall’alto, dove lo sguardo del poeta si innalza a sentire la partecipazione della natura alla sofferenza degli uomini, in attesa della pace della notte rischiarata dalle luci accese dal lampionaio. Prospettiva rafforzata dalla seconda poesia (Del vivere) che dichiara, in apertura e senza mezzi termini, che nel vivere il poeta ha cercato l’essenza. Cercare non significa raggiungere. Donde un cammino che si dipana fra fallimenti, sconfitte, ma anche sprazzi intensissimi di amore. Le due poesie che alludono all’amore per una donna (Pensiero di te e Bacio) non a caso, a mio parere, sono precedute dalla poesia che dà il nome all’intera raccolta: Prima che. Si tratta di una riscrittura attualizzante, intessuta delle sensazioni e degli affetti del poeta, di un passo tratto dal Qoelet (12, 1-7), uno dei libri più belli e insieme tremendamente inquietanti della Bibbia, un seguito di immagini che convergono verso la morte, ma sono incastonate fra il monito di ricordarsi di Dio nei tempi propizi e la speranza del ritorno a lui («Ricordati del tuo creatore nei giorni della tua gioventù, prima che vengano i giorni di tristezza […] la lampada d’oro si infranga, si rompa la secchia alla fonte, si spezzi la carrucola al pozzo, e ritorni la polvere alla terra, com’era, e lo spirito torni a Dio, che l’ha dato»). Letto alla luce di questo brano ispiratore, il messaggio subliminale di Enrico nella poesia Prima che, e nell’intera raccolta, si rivela essere un messaggio di fiducia nel senso ultimo delle cose, che consente di vivere con abbandono e slancio l’amore in tutte le sue forme. Una fiducia tuttavia sempre messa alla prova e oscurata dalle lentezze, dagli accecamenti, dalle meschinità della vita concreta, e che dunque va costantemente cercata e riconquistata. Così l’Ascesa a San Giovanni in Venere, ultima poesia della raccolta, diventa la metafora dell’esistenza stessa, ormai quasi percorsa («… Finisce il tempo») per arrivare alla pace e al tempo che non muore. Su questa soglia Enrico pone un sigillo biblico, assai riconoscibile, attinto all’Apocalisse di Giovanni, l’ultimo libro del Nuovo Testamento. Dice infatti «E il mare non c’è più». Sono precisamente le ultime parole di Giovanni prima della visione della Gerusalemme che discende dal cielo, la dimora di Dio con gli uomini, quando sarà asciugata ogni lacrima e la morte non sarà più (Apocalisse 21, 2-4). Avendo negli occhi della mente questa stessa visione Enrico può concludere il suo viaggio: «Su, in cima, all’abbazia celeste, / città nostra patria di luce, / sei Tu ad attenderci».
Emanuela Prinzivalli
Emanuela Prinzivalli, Commento introduttivo, in “Enrico Nicolò, Prima che – Raccolta di poesie, Palombi Editori, Roma, 2015”, pagg. 15-17.