Una volta, in un momento di particolare ispirazione, un professore e antropologo abruzzese si lasciò andare alla seguente considerazione su Enrico Nicolò: “Mi sa proprio che questo Nicolò qui è un ingegnere crepuscolare”. In effetti quel commento, del tutto spontaneo e istintivo, riusciva a catturare con inaspettata pregnanza alcune caratteristiche del personaggio in questione, e si rivela ora un’utile chiave di lettura nell’approccio a quest’opera dell’autore romano. Cosa succede infatti quando il prorompente slancio di un artista, con il suo prolifico universo interiore ed il suo profondo sentire, viene incanalato e filtrato attraverso la lente rigorosa e metodica di uno scienziato, nella sua lucida e infallibile osservazione della realtà? Cosa ne può venir fuori? Un buon modo di scoprirlo è sicuramente quello di sfogliare la presente raccolta Prima che ed esplorare le venti poesie che la compongono, scritte dall’autore alla spicciolata nell’arco di quasi vent’anni, tra il 1994 e il 2011, e, pertanto, non originariamente concepite per essere racchiuse in un’unica opera.
Di cosa parlano queste poesie? Suppongo sia mio compito accompagnare il lettore in un’analisi tematica. Senz’altro sono poesie esistenziali. Senza dubbio vi è un viaggio introspettivo nell’io. Ed è altresì innegabile che nella gran gamma dei sentimenti umani qui l’ago si attesti con buona costanza su frequenze piuttosto meste, malinconiche, tristi. Crepuscolari appunto. Ed è vero anche che tra i temi che rivestono un ruolo centrale in questi componimenti compaiono solitudine, sogni inappagati, rapporti umani stentati. Ma prima di addentrarsi in questo tipo di discorso è importante riflettere a monte su un elemento significativo. Ovvero che, come mi sembra corretto poter affermare, queste poesie dicono il non detto. Danno cioè sfogo all’intimità ultima del poeta, che correva il rischio di non affiorare in superficie, esprimono emozioni forse a tratti indicibili, mettendo a nudo l’essere umano in tutta la sua fragilità, talvolta bruscamente. Quanto compare in queste pagine è dunque materia estremamente preziosa. Ha la purezza e l’autenticità che vengono dalla straordinaria prossimità al cuore del poeta e allo stesso tempo il graffio grezzo e incisivo della verità. È stata sottratta all’oblio sotto forma di versi e risuona potente in chi vi si accosta. Una poesia in cui si sente, e forte, tutto il peso del vissuto. Una poesia esistenziale, sì.
Spero di aver teso a sufficienza l’orecchio di chi legge. E ora sì, tuffiamoci nell’oceano tematico della raccolta e vediamo anche di fornire qualche coordinata per la navigazione. Il titolo viene rapidamente in nostro soccorso. Prima che. Il tempo è effettivamente il tema principe di questa produzione artistica, ricorrendo in quasi tutte le liriche a scandire il corso dell’umano esistere. Una presenza incessante, talvolta angosciante e senz’altro foriera della fine del tutto, come accade spesso in poesia, e, ad ogni modo, una forza sostanzialmente avversa all’uomo. La sua azione si fa a tratti inquietante, soprattutto nelle poesie più “grigie”, come Ritorno, o Mutamenti, forse il componimento di maggiore impatto in relazione a questa tematica. Tempo come emblema della caducità, in quella che per l’uomo è una battaglia dall’esito segnato. Con le dovute eccezioni però. Laddove anche il tempo sembra dover sottostare ad una forza superiore. Ed ecco infatti che nelle liriche conclusive anche il tempo si ferma. Per intervento della trascendenza. E viene redento, diventa un “tempo che non muore”, finché, nel poemetto conclusivo della raccolta, Ascesa a San Giovanni in Venere, anche il tempo finisce. Particolarmente toccante è, per associazione, la poesia Parlate loro di noi, un tributo ai soldati inglesi caduti in terra italiana durante la Seconda Guerra Mondiale, dove è impossibile non rinvenire nel sacrificio degli eroi un richiamo al Sacrificio sacro del Cristianesimo. Un elemento quello della trascendenza che, seppur in gran parte velato o appena accennato nel corso delle varie poesie, emerge più esplicito in qualche occasione, dando senso all’esistenza intera e svelando dunque il credo del poeta quale uomo di fede.
E, nel mezzo, c’è tutto il resto, con il dispiegarsi di vicende stavolta «umane, ahi troppo umane!» che danno luogo spesso ad esperienze sofferte, ma non soltanto. Il filo conduttore principale nel linguaggio dell’autore e maggior catalizzatore del suo slancio poetico è, come anticipato, lo scontro tra le illusioni passate e la realtà della vita, mentre il tempo continua a correre “per introdurre rapido la sera”. Altra trama narrativa centrale è, come si accennava in precedenza, una condizione esistenziale di solitudine, frutto di rapporti umani travagliati e dolorosi, a tal punto che si può arrivare a vivere un “amore tangente”, a sperimentare l’indifferenza di chi ci circonda, o a “deviare i passi” per rifuggire ogni contatto. Tutti sintomi, questi, di piccoli grandi fallimenti quotidiani nei rapporti interpersonali, che scavano un grande vuoto interiore nell’uomo. Il punto più struggente della raccolta è probabilmente rappresentato dalla poesia Solitudine, dove si toccano note quasi tragiche. Quella di Enrico Nicolò è, in un certo senso, una poesia dell’impossibilità, della debolezza e fragilità umane, percepite e trasmesse attraverso un’accentuata autoconsapevolezza di sé e dei propri limiti. Ed è, in misura anche maggiore, una poesia dei sogni infranti, elemento questo assai ricorrente, che viene immortalato in versi ed immagini spesso dall’espressività e significatività eccezionali. Sogni che sono “sparpagliati”, “calpestati”, “dissolti” e che, se ancora vivi, lo sono solo in una dimensione illusoria e inconciliabile con la realtà delle cose.
C’è spazio però anche per qualcos’altro. Nel deserto emotivo che accompagna il poetare dell’autore si fanno largo infatti anche elementi riconducibili ad una sfera dai contorni più felici. Alle poesie più tetre fanno da contrappeso liriche più serene o perfino luminose in alcuni casi, dove la vita sembra prevalere, dove c’è spazio per espressioni di amore e affetto, come nel caso di Pensiero di te e Bacio. Questi componimenti, tra i pochi dell’autore a poter essere considerati a tutti gli effetti “poesie d’amore”, forniscono alla raccolta un tocco di dolcezza del quale si sente a tratti una forte necessità. Compaiono inoltre poesie in cui emerge uno sguardo benevolo rivolto a momenti del passato da custodire gelosamente, con zelo quasi sacrale, talvolta accompagnati da una vena malinconica dal sapore agrodolce. Ed è forse in alcuni di questi quadretti densi di immagini che l’autore riesce a dosare al meglio le diverse componenti e a trovare un equilibrio poetico straordinario, a tal punto da regalare a volte delle vere e proprie perle. È il caso di Vita, che descrive una scena d’alba in riva al mare, ma anche di Dall’alto, il componimento che apre la raccolta, dove il lettore viene quasi cullato dall’andamento ciclico della lirica, composta con un tocco di singolare delicatezza ed una compiutezza stilistica probabilmente senza pari tra le poesie di quest’opera. Nelle due liriche appena citate si realizza inoltre una stupenda simbiosi fra uomo e natura, in una sorta di fusione reciproca, in cui vi è da un lato una natura che, a tratti personificata, sembra quasi lenire consolatoria le sofferenze dell’uomo e, dall’altro, un’umanità le cui azioni e pensieri prendono la forma di elementi naturali. Altro componimento ricco di immagini è Ferrovia che non è più, dove il tono lirico si innalza in un’ode all’antica ferrovia litoranea dell’Adriatico, caduta in disuso e rimossa nel 2006. Qui si palesano il calore e l’attaccamento che il poeta riserva alla memoria e ai ricordi di un passato felice, anche questo un motivo ricorrente nella sua produzione.
Dalla memoria al tramandare il passo è breve. E allora si fa largo tra le varie tematiche trattate nell’opera una riflessione, molto cara all’autore, sul bisogno di comunicare ciò che siamo stati a chi verrà dopo di noi, anch’essa figlia in parte di un’incomunicabilità di fondo sperimentata nel presente. Le forme artistiche a cui viene affidato questo delicato compito sono in primis scrittura e fotografia. Come dimenticare infatti che Enrico Nicolò è innanzitutto un fotografo autore, ma anche scrittore in prosa di vecchia data. Le poesie Memoria e Fotografie accarezzano dunque il tema delle arti, e c’è spazio anche per un originale scorcio cinematografico ne Lo schermo della nostra vita, una meditazione, ancora una volta, sulla fugacità del tempo. Il discorso sulla fotografia spiana la strada ad una considerazione forse fin troppo scontata sulle liriche di Prima che. Non si può non essere colpiti infatti dall’abbondanza di immagini visuali che l’autore riesce a regalare. La sua si caratterizza dunque senza dubbio come poesia per immagini, poesia di un fotografo che stavolta ha deciso di lasciare la macchina e di affidare lo scatto alla penna. E chissà che il potere evocativo dei versi non si riveli persino più potente rispetto a quello del più diretto canale visivo. Chissà che non possa assurgere a vette artistiche più elevate. Ma forse non spetta a noi stabilirlo.
Proprio le immagini ci portano inevitabilmente ad un’analisi della cifra stilistica della raccolta. Perché, a dire il vero, la marea immaginifica che investe il lettore non è che uno dei due volti dello stile dell’autore. Enrico Nicolò è sì un poeta crepuscolare, ma pur sempre un ingegnere, ricordate? Un uomo di scienza troppo presente a se stesso per abbandonarsi completamente alle lusinghe della poesia. Ed ecco che il suo sguardo razionale e consapevole si traduce in uno stile essenziale, secco, quasi spigoloso, fatto a tratti di versi brevi e giustapposti in rapida sequenza, quasi che la verità non possa tacere, premendo per venir fuori con un ritmo martellante e dai pochi fronzoli. Un linguaggio diretto, talvolta quasi prosaico nel suo andamento, una sorta di realismo lirico, soprattutto in coincidenza degli slanci introspettivi nel più profondo io dell’autore. E poi c’è anche il resto, ovviamente. I versi arditi, le immagini talora centellinate con sapienza, talora a valanga, in un profluvio di versi dalla sorprendente ricchezza. Uno stile che va dall’ermetico-criptico fino al trionfo più totale della metafora e della parola, ora seguendo uno schema, ora vagando libero. Un poetare tutto sommato terra terra, ma capace, eccome, di spiccare il volo sulle ali dell’ispirazione. Capace anche di ferire però con accelerazioni repentine, non di rado in corrispondenza del verso conclusivo delle poesie, che spesso leva il fiato al lettore, trafitto a tradimento da una pugnalata improvvisa. Uno stile duplice dunque, dove si riconosce bene quando è l’artista visionario a condurci per mano e quando, invece, a guidarci è l’uomo logico e sensato. O, ancora, quando i due elementi si fondono in un connubio irripetibile. Il poeta sa alternare la carezza dei suoni dolci e la frustata delle consonanti aspre. L’effetto globale del suo stile è, in definitiva, quello di colpire l’ascoltatore con la sua originalità ed immediatezza.
Prima di chiudere questa traiettoria trasversale nella poesia di Enrico Nicolò, vale la pena soffermarsi ancora su uno o due elementi. Il primo concerne l’importanza attribuita dal poeta al silenzio meditativo, che arriva ad assumere i contorni di un’esperienza mistica, rappresentando un momento rivelatorio di grande spessore esistenziale. Tale aspetto del resto non sorprende, in particolar modo in una persona come l’autore, che ama di certo lasciar parlare la sua arte più di ogni altra cosa, il che ci rimanda alle considerazioni fatte all’inizio sulla dimensione del non detto. Il secondo elemento riguarda la straordinaria tensione che si viene a creare in queste liriche tra luci e ombre, in una lotta che richiama evidentemente la contrapposizione vita-morte. È particolarmente interessante porsi in questa prospettiva per osservare poesie in cui domina minacciosa la presenza dell’oscurità, e liriche dove invece la luce “diffonde la sua vittoria”. Non manca ovviamente anche il chiaroscuro, con alcuni componimenti che si alimentano proprio del sottile equilibrio tra buio e luce.
A proposito di buio e luce, è proprio “alla luce” della riflessione su questa dialettica vita-morte che ci si può infine accostare ad un’interpretazione della raccolta Prima che. Eh già, perché Prima che, in fondo, è anche il titolo della poesia che dà il nome all’opera, e su cui non ci si è ancora soffermati. Ed è una poesia che lascia il segno. Un segno profondo. A tal punto che viene da interrogarsi proprio riguardo a quell’avvertimento, “prima che”, che suona quasi come un monito solenne dai contorni sinistri. È dunque questa la lettura più corretta? Forse no. Perché in definitiva, esattamente prima che… c’è pur sempre la vita, una vita che, nell’espressione poetica di Enrico Nicolò, è costellata di sofferenze, ma anche di gioie e momenti da ricordare con amore. Probabilmente, alla fine, questa raccolta parla semplicemente di vita. La frase va dunque intesa in questo senso, come un’esortazione a vivere con pienezza? Mi sembra che non sia più tempo di risposte. È arrivato il momento di lasciar parlare i versi.
Stefano Nicolò
Stefano Nicolò, Prefazione, in “Enrico Nicolò, Prima che – Raccolta di poesie, Palombi Editori, Roma, 2015”, pagg. 7-13.