Ho conosciuto Enrico Nicolò due anni fa in occasione di una sua mostra personale dal titolo Beyond the Chaos. Da questo incontro è nata una profonda collaborazione artistica che mi ha permesso e mi permette tuttora di scrivere e parlare di lui.
Già alle prime osservazioni delle sue fotografie in bianco e nero, due pensieri si sono affacciati alla mia mente: la poesia non è solo quella che si scrive; l’arte non rappresenta il visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è (Paul Klee). Già, perché di poesia si tratta e di invisibile che una particolare sensibilità può svelare.
Enrico Nicolò è fotografo di paesaggi abitati da figure dove ognuno osservando può trovare la vita, la bellezza, il mistero che li anima. L’artista pratica la fotografia analogica creando immagini spesso concettuali e speculative, che superano la rappresentazione del soggetto inquadrato per divenire espressione di sentimenti personali e universali. È un uomo in cammino che con la sua inseparabile macchina fotografica insegue il divenire della vita, ne custodisce una propria filosofia di interpretazione e regala agli altri una documentazione, un’immagine che ha una sua oggettività e una sua interiorità. Dietro ogni scatto vedo un pensiero ragionato, un’emozione, un gesto, una debolezza, un’incertezza, un’esitazione, un ripensamento, infine una convinzione. Grazie all’uso ricorrente delle figure retoriche, metafore e allegorie, egli riesce a creare, attraverso segni e simboli, delle vere e proprie narrazioni sceniche.
Non nascondo che la prima impressione ricevuta dell’artista è stata quella dell’uomo che in maniera schietta e pregnante Nietzsche così descrive: «chi anche solo in una certa misura è giunto alla libertà della ragione, non può non sentirsi sulla terra nient’altro che un viandante». Enrico Nicolò è un viandante, un viandante che percorrendo la strada del nostro tempo incontra la solitudine, l’incomunicabilità, il muro dell’ingiustizia ma anche spazi sconfinati, i fiori, il mare, la solidarietà: “la Grande Bellezza e la Grande Bruttezza” che ormai convivono nel nostro panorama quotidiano.
I protagonisti delle sue fotografie nella raccolta Oltre il caos, in continua ricerca del perduto, del trascurato, di se stessi e della verità e volti al recupero della semplicità, rimandano indubbiamente alla “Recherche” di Marcel Proust. Come pure i temi della fragilità, caducità e dello scorrere del tempo in Tempora et horae. Nella serie fotografica Solitudine del viandante del tempo il tema della solitudine esistenziale nel viaggio della vita, dell’incomunicabilità e della prova continua a cui la vita stessa ci sottopone ci riporta alla “trilogia dell’incomunicabilità” di Michelangelo Antonioni.
Un percorso fotografico, quindi, sorretto da un grande background culturale e ottenuto, dal punto di vista tecnico, “tutto-in-macchina”, attraverso il quale, con l’uso del bianco e nero e con grande maestria, l’autore riesce a comunicare allo spettatore il viaggio interiore dell’uomo di cui lo stesso spettatore si sente partecipe.
Finché è giorno è il titolo del suo ultimo lavoro che racchiude le due inedite serie fotografiche Desks e Unless You Change. È l’autore stesso che così lo definisce: «Queste due serie sono accomunabili sotto il titolo congiunto “Finché è giorno”, che riprende quanto è scritto nel versetto 4 del capitolo 9 del Vangelo di Giovanni, poiché entrambe fanno riferimento al buon uso del tempo, che, come dono, è messo a disposizione dell’uomo. Per porsi in ascolto e meditare. Per convertirsi e cambiare vita. Per amare ed essere felice. E, in un certo senso, per poter percorrere i pascoli del Cielo fin dall’esperienza terrena. Finché è giorno, del resto, richiama quel Prima che, che si rifà al libro di Qoèlet, titolo della mia raccolta di poesie, che sono frutto della medesima ispirazione».
In Desks il protagonista è un uomo solitario che inizia il suo viaggio portando con sé una scrivania e una sedia, simboli che richiamano quella che l’autore definisce “camera interiore”. Una serie di scatti nella cui fascinazione ogni spettatore può immergersi. È un itinerario in cui, secondo la mia personale interpretazione, il vero protagonista è la cultura sotto forma di ammirazione (Desks – 4), incantamento (Desks – 5), voglia di sapere ancora (Desks – 6). Quella cultura che rappresenta l’essenza stessa dell’essere umano e che alberga prima in una generazione per poi essere trasmessa a quella successiva. Non a caso il personaggio nell’ultima fotografia (Desks – 11) lascia gli abiti e un orologio a testimonianza di chi è andato via e in previsione di chi sta per arrivare. L’orologio come testimone del tempo che scorre è un oggetto che ricorre spesso nei fotogrammi di Nicolò. Rappresenta insieme allo spazio il palcoscenico della vita. L’autore stesso distingue il tempo in “Tempo circolare e tempo lineare. Tempo irreversibile e tempo finito. Tempo ultimo e tempo eterno”. In realtà esso è il guardiano della nostra esistenza che ci invita “all’amarcord” del nostro passato, al carpe diem del nostro presente e alla “costruzione” del nostro futuro. Accanto al tempo appaiono i tanti accattivanti paesaggi da cui traspare senza dubbio la bellezza del creato, di fronte alla quale il personaggio di Desks resta in contemplazione, in contrasto con l’indifferenza dell’uomo contemporaneo rispetto ai valori, afflitto com’è da una sorta di assenza di gravità, dalla noia, da uno spleen senza poesia.
Nella realtà siamo infatti spesso pervasi dalla delusione di non riuscire a trovare il senso dell’esistenza e nella cadenzata successione dei giorni ci accompagna un’inerzia che nemmeno percepiamo perché mascherata da un frenetico darsi da fare, di cui però fatichiamo a reperire non solo lo scopo ma anche il perché. Avvolti da sovrabbondanza e opulenza che, nonostante le crisi, tali rimangono rispetto alla condizione disagiata di molti luoghi del mondo, ad esse ci affidiamo come ad addormentatori sociali. In questa opacità generale, dove pochi discutono idee, ci assuefacciamo a ovvietà e luoghi comuni, lasciando che si stenda sulle nostre menti il manto dell’assopimento del pensiero, mascherato dalla suddetta frenesia del fare. Eppure la cultura può significativamente contribuire a porre realmente rimedio al degrado verso cui siamo avviati.
E tornando a Nietzsche, faccio mio questo suo splendido pensiero: «No. La vita non mi ha disilluso da quando ho scoperto che potrebbe essere un esperimento di chi è volto alla conoscenza, non un dovere, non una fatalità, non una frode. La vita come mezzo di conoscenza. Con questo principio nel cuore si può non soltanto valorosamente, ma anche gioiosamente vivere e gioiosamente ridere».
Nel suo commento a Unless You Change l’autore cita la versione inglese di un passo del Vangelo di Matteo «Unless you change and become like little children you will never enter the kingdom of Heaven» (Mt18, 3b): «Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli».
A questo passo si rifà tutta la poetica della serie fotografica. Analizzando gli scatti mi tornano poi in mente le parole del Pascoli «È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi […] ma lagrime ancora e tripudi suoi». C’è dunque una voce nascosta nel profondo di ciascun uomo, che si pone in contatto con il mondo attraverso l’immaginazione e la sensibilità (tipiche dei poeti). In tal modo, egli scopre aspetti nuovi e misteriosi, che «sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione». In questa serie si percepisce il forte attaccamento dell’autore alla fanciullezza, ai ricordi e quindi alla memoria. Le immagini fotografiche mostrano un uomo e una donna adulti, soli, in atteggiamento di gioco con trastulli infantili. Esse configurano un viaggio in cui l’uomo si guarda intorno attentamente e immagina in cuor suo di scalare le difficoltà della vita (Unless You Change – 24), di “giocare” (Unless You Change – 6, – 1, – 19), di riposare (Unless You Change – 23). I giocattoli accentuano il senso di lontananza, nostalgia, disillusione, e probabilmente rimpianto, che conferisce un velo di malinconia alla solitudine delle figure umane ritratte.
È una dimensione, questa, ancor più spirituale, che ha a che fare direttamente con la fede dell’uomo, perché la religione, ogni religione, non parla solo alla ragione, ma la supera per raggiungere l’intimo sentire dell’essere umano, il suo cuore. E il cuore è la parte di noi stessi che vive di fascinazione, suggestione, idealizzazione, speranza di felicità, lenimento del dolore, esaudimento del desiderio e bisogno di consolazione. È quel fondo irrazionale proprio di ogni uomo e che non di rado costituisce la sua forza per vivere.
Mi piace esprimere le mie personali emozioni provate nell’osservare alcune di queste fotografie. Quella carezzevole dell’aquilone (Unless You Change – 26) che rimanda ciascuno di noi ai tempi felici dell’infanzia sui banchi di scuola: «C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, / anzi d’antico […] Si respira una dolce aria che scioglie / le dure zolle, […] un’aria d’altro luogo e d’altro mese / e d’altra vita: un’aria celestina / che regga molte bianche ali sospese… / sì, gli aquiloni!». Quella, significativa, del pallone di dimensione esagerata (Unless You Change – 38) che guarda insieme al suo calciatore lo specchio della porta. Quella tenera dell’amore (Unless You Change – 2): l’incontro tra l’uomo e la donna che vanno su un’altalena, come è facile intuire, avviene in una frazione di secondo, ma è un attimo che dura un’eternità. Sulla cattiva strada si incontra l’amore, scriveva De André, e l’amore è da sempre la migliore risposta all’orrore. Apparentemente le due figure appaiono separate e destinate a non entrare in relazione tra loro. Ma per quanto questa visione possa avvicinarsi spesso alla realtà è nell’animo di ogni spettatore, così come per me, immaginarne un abbraccio. Infine quella leggera del volo (Unless You Change – 14), nostro desiderio più recondito, che racchiude i nostri sogni, le nostre aspettative, il nostro domani.
Mi preme sottolineare che con gioia ho esaminato quest’ultima opera di Enrico Nicolò e ho scritto su di essa. È un’opera che richiede attenzione e dona ricchezza perché l’arte è intuizione, è forma, è idea, è preghiera. La sua è una fotografia molto ricercata sia per quanto riguarda i canoni dell’estetica sia per l’interrogativo sul significato e sul fine dell’esistenza umana. È un continuo porre domande e chiedere risposte. Non a caso le sue fotografie sono fortemente simboliche e a tratti surreali. Lo stesso ricorso al bianco e nero da un lato accarezza l’occhio di chi guarda e dall’altro genera un costante gioco di luci e ombre che danno nitidezza all’immagine ed espressività all’esperienza di vita di ogni uomo.
Attraverso un percorso le cui tappe hanno abbracciato l’universo femminile nelle serie fotografiche Dive di carta, icone in celluloide, Oltre l’infinito sublime, Vorrei avere lacrime che mi bagnino gli occhi e Around a Woman, lo sdoppiamento della realtà nel tema Split Reality, la parentesi evangelica in Sgridò i venti e il mare e quanto già detto in Oltre il caos, Solitudine del viandante del tempo e Tempora et horae, il fotografo è giunto con queste due ultime serie al convincimento che la vita è sostanzialmente desiderio di conoscenza, solitudine, amore e rimembranza. Una sorta di raggiunta maturità a cui appoggiarsi per continuare senza tentennamenti il proprio cammino verso i tempi ultimi, verso l’oltre.
Ma è questa la giusta interpretazione? La forza vera della fotografia di Enrico Nicolò sta nella sua enigmaticità. Nessuno sa che cosa abbia in mente di dire l’autore perché mille sono le domande e mille le risposte relative a ogni singolo scatto. Non si tratta della semplice rappresentazione della realtà nelle varie sfaccettature, ma è ricerca di una verità attraverso una realtà che non è solo realtà. È questa l’energia della sua innovazione e della sua originalità e unicità.
Reali però sono per Nicolò il profondo rispetto e l’ammirazione per la terra d’Abruzzo dove lui “cammina” inciampando nella sua bellezza. Lui la osserva, l’abbraccia, ne cattura la semplicità e con entusiasmo da anni coltiva con essa un rapporto amoroso visibile nei suoi scatti e nel sorriso dei suoi occhi.
Angela Troilo
Angela Troilo, Introduzione generale, in “Enrico Nicolò, Finché è giorno, Collana “I Quaderni di Gente di Fotografia”, Gente di Fotografia Edizioni, Modena, 2016”, pagg. 6-13.