I film dell’indiano Satyajit Ray portano sullo schermo la figura femminile presentando, nella trilogia sul “risveglio della donna”, donne emarginate dalla tradizione indiana che lottano per costruirsi un’identità propria. All’inizio di Charulata la moglie, praticamente imprigionata nel caseggiato, passa da una finestra all’altra guardando il mondo attraverso un binocolo. Questa immagine terribile mi è tornata alla mente di fronte all’insieme di immagini che Nicolò ha prodotto traendole da alcuni interni di un palazzo ottocentesco dismesso, dove la stessa struttura architettonica di blocco quadrangolare chiuso e stretto tra il portone, la scalinata erta e le cucine interne, prelude alla costrizione. Quando poi entriamo con l’artista negli ambienti, l’atmosfera si configura attraverso gli scatti in un sottomesso dominio femminile: la figura che anima il contesto, di spalle e in controluce, guarda sempre verso l’esterno come per sfuggire alla pressione asfittica proveniente dall’interno casalingo dove, nel tardo ’800, le donne dell’alta borghesia erano confinate da ferree leggi patriarcali. Donna, quella che emerge, emblema di tante giovani donne sposate secondo i rigidi protocolli di accordi tra famiglie agiate che avevano ricevuto una buona educazione in casa o nei collegi di città evolute: quasi tutte sapevano della Paris World Exposition, alcune erano informate della fondazione del British Labour Party o della morte di Ruskin, Wilde o Nietzsche; Sigmund Freud scriveva il suo L’interpretazione dei sogni; nei pochi anni successivi moriranno Cézanne, Gauguin e Pissarro, mentre van Gogh esponeva a Parigi. Nessuno, soprattutto donna, poteva rimanere estraneo a tali sconquassati canoni estetici ed etici: principi traballanti di tradizioni morenti in una società che aveva esaurito i propri elementi costitutivi e che esprimeva in tutti i campi una nuova capacità di sperimentare: Hopkins apre lo studio sulle vitamine e Einstein presenta le sue teorie, il primo Nobel è del 1901, quando muore Verdi e Gide scrive L’immoralista. Quanto a lungo e perché mai, allora, in tanto fermento e consapevolezza di uomini alla ribalta, le donne avrebbero dovuto solo guardare con o senza binocoli? Su questo stato di avvertita immobilità, evidente nell’opera di Nicolò, si concentra la mia attenzione che si pone però al di là e di fronte agli sguardi negati alla ripresa fotografica e immagina occhi intelligenti di donne fantasiose e passionali che hanno alimentato sempre la scrittura maschile, ma solo negli ultimi decenni sono riuscite ad alimentare i propri desideri, muovendo i passi verso l’altrove sognato. È una donna, quella di Nicolò, che guarda davanti a sé e non si mostra, non richiama né attende le lusinghe maschili, sorda alla retorica dell’omaggio alle bocche, ai seni, ai fianchi e ai profumi dell’enfasi dannunziana o neoclassica di Carducci o sensuale di Baudelaire; è la donna di Saba, invece, oppure quella che Freud pone in analisi. L’attrito tra i generi, lo scontro tra i secoli ho percepito nel lavoro di Enrico Nicolò che, in un pomeriggio estivo nelle stanze di un vecchio palazzo semi-abbandonato in Abruzzo, accompagnato dalla sua musa e moglie ad interpretare i ruoli della presenza e dell’assenza, ha inventato un racconto lieve e però faticoso di luce, di ombra e di silenzi più sonori di ogni passata retorica femminista.
Marisa De Filippis Paolucci
Marisa De Filippis, Un binocolo per Eva, in “Enrico Nicolò, Vorrei avere lacrime che mi bagnino gli occhi (già in “Rivista Abruzzese – Rassegna Trimestrale di Cultura”, anno LXVI, n. 4, pagg. 381-396, ottobre-dicembre 2013), Rivista Abruzzese Editrice, Lanciano (Chieti), dicembre 2013”, pagg. 4-5.