“I tuoi occhi / saranno una vana parola, / un grido taciuto, un silenzio. / Così li vedi ogni mattina / quando su te sola ti pieghi / nello specchio”. Questi versi tratti da un celebre componimento scritto da Cesare Pavese il 22 marzo 1950, preannunciano la tragica fine dello scrittore che si suicidò il 27 agosto dello stesso anno in una stanza dell’albergo “Roma” di Torino; con essi il poeta afferma anche il pensiero della morte per uscire dalla solitudine, dalla incomunicabilità e dall’angoscia esistenziale che lo hanno accompagnato ininterrottamente per tutta la vita. Analogamente, in tutta la produzione artistica del fotografo Enrico Nicolò sono ravvisabili i topoi della solitudine, dell’incomunicabilità e della spinta verso il trascendente quale unica e praticabile via di salvezza. Gli aspetti precipui di siffatta poetica ritornano con uguale rigore anche nell’ultima serie fotografica dal titolo Vorrei avere lacrime che mi bagnino gli occhi.
Difatti già in serie fotografiche come Solitudine del viandante del tempo, Oltre l’infinito sublime e Tempora et horae Nicolò aveva posto in essere una riflessione su talune verità dell’uomo che sono universali e ineludibili. Lo aveva fatto creando immagini fotografiche in bianco e nero con protagonisti la figura umana e il paesaggio: un paesaggio dagli ampi spazi, aspro, disabitato, e una figura umana, talora maschile talaltra femminile, posta di spalle all’osservatore e con lo sguardo rivolto all’orizzonte come in cerca di risposte ultime e definitive. Dunque, il linguaggio fotografico diventa in Nicolò una chiave per accedere al mondo del figurato e del simbolico ove ciò che vediamo non va assunto “alla lettera”, ma interpretato alla luce di significati esistenziali più alti. Ebbene, anche nell’ultima serie che qui è oggetto della nostra attenzione, il fotografo ricorre al bianco e nero e sceglie come protagonista delle sue foto una figura femminile – cosa d’altronde che aveva già fatto nella serie Oltre l’infinito sublime. Tuttavia notiamo un ulteriore passo in avanti: gli spazi aperti e ampi dei paesaggi ora rurali ora marini che avevano caratterizzato la produzione precedente di Nicolò, cedono il passo a immagini realizzate in interni. Dunque, per la prima volta Nicolò abbandona il paesaggio e il suo essere cassa di risonanza dei sentimenti di solitudine ed estraneità dei suoi personaggi per collocare la figura femminile in una dimora borghese di fine Ottocento. Anche qui non sfugge il fatto che Nicolò realizza per le sue foto una rigorosa messinscena che favorisce in chi guarda l’immedesimazione con il personaggio femminile, posto sempre di spalle e immerso in una penombra che ne esplicita lo stato d’animo precipuo, quello di un malessere fatale.
La donna è colta, spesso, nell’atto di affacciarsi dalla finestra, come a voler rendere manifesto il senso di un’attesa, forse vana forse no, chi può dirlo, di qualcosa o qualcuno che la riscatti dall’ostinata reclusione cui ogni donna del suo tempo è inesorabilmente destinata. Dunque, qui, come nelle precedenti serie, Nicolò ritorna a far riflettere l’osservatore su verità ultime, così che la sua eroina di fine Ottocento diventa l’emblema di una condizione umana universale: quella della solitudine e della delusione per ciò che tarda ad arrivare.
Annarita Curcio
Annarita Curcio, “I tuoi occhi saranno una vana parola, un grido taciuto, un silenzio”, in “Enrico Nicolò, Vorrei avere lacrime che mi bagnino gli occhi (già in “Rivista Abruzzese – Rassegna Trimestrale di Cultura”, anno LXVI, n. 4, pagg. 381-396, ottobre-dicembre 2013), Rivista Abruzzese Editrice, Lanciano (Chieti), dicembre 2013”, pagg. 3-4.