Cosa significa per Dio farsi uomo? Il pensiero cristiano, a partire dal dato di fede, si è costantemente posto questa domanda. L’attenzione, certo, è stata sempre focalizzata sugli aspetti dolorosi dell’incarnazione, soprattutto perché le prime formulazioni di fede su questo hanno insistito. Paolo dice ai Corinzi di trasmettere loro quello che ha ricevuto, cioè che «Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture» (1 Cor 15,3).
Si è riflettuto sulla paura di Gesù al Getzemani, sul suo pianto. Meno si è data attenzione alle implicazioni gioiose del suo essere uomo: ridere con gli amici, godere del vino buono, di una giornata di sole, del riposo all’ombra di un albero, del riconoscere la bellezza. Eppure qualcosa i vangeli in proposito hanno detto, e molto Gesù ha dimostrato di sapere, narrandolo nelle sue parabole: la felicità di chi ritrova quello che ha perduto, di chi scopre quello che non immaginava neppure di poter avere, l’amore ricambiato e quello respinto. Ognuna di queste esperienze è limitata, nel tempo e nello spazio, perché così è l’esistenza dell’essere umano. Farsi realmente uomo per un dio significa dunque accettare la parzialità, sapere che si è qualcosa e non altro, sperimentare la finitezza: se si è ebreo non si è gentile, se si è maschio non si è femmina, se si è scuro di pelle, non si è chiaro, se si ride non si piange, se si attende non si è ancora sperimentato.
Ciò che rende straordinario il racconto dei cristiani su Dio è che Dio abbia accolto e assunto la parzialità come parzialità, appunto, come limite, permettendoci quindi di pensare, o lasciandoci sperare, che ogni limite umano sia accolto, assunto, compreso, perdonato, amato da Dio. Ci voleva un poeta contemporaneo, teologo non credente, per far parlare il Dio Logos, tornato nella gloria, di ciò che la parzialità umana gli ha regalato: «A veces pienso con nostalgia / en el olor de esa carpintería», così Borges (Juan 1,14) conclude la sua riscrittura poetica del prologo di Giovanni.
Se un Dio può accettare la finitudine, credere in un Dio fattosi uomo significa anche accettare la distanza che separa dai suoi gesti umani, da ciò che avremmo voluto vedere con i nostri occhi e non vedremo, perché siamo qui, ora, e non fummo lì, allora. Significa sapere che quei fatti accaduti un tempo in Galilea e in Giudea sono definitivamente trascorsi. Restano però le parole dei vangeli a evocarli, e allora ecco che, grazie ad esse, l’immaginazione ce li restituisce, sfocati. Non vediamo quei volti che avremmo voluto vedere, non vediamo il Suo volto. Il nostro Oreb è il nostro secolo, sono i nostri giorni.
Di tutto questo, della nostalgia e del desiderio impossibile di toccare l’uomo Gesù, oltre che della nostra percezione confusa di Dio, parlano le foto di Enrico Nicolò, nel loro sapiente uso dello sfocato e del mosso creativo, significativamente accompagnate dalle parole dei vangeli che parlano dei gesti di Gesù. Dice bene, dunque, l’Autore, concludendo la sua presentazione del tema fotografico: «il fuori fuoco si confermava idoneo a offrire una raffigurazione “mediata” che rispecchiasse simultaneamente la realtà del vero Dio e dell’uomo Gesù».
Emanuela Prinzivalli
Emanuela Prinzivalli, Il nostro Oreb: osservazioni a margine di un tema fotografico, in “Enrico Nicolò, Sgridò i venti e il mare – Intuizioni di immagini dai Vangeli, Palombi Editori, Roma, 2013”, pag. 85.