L’inesauribile potenzialità della parola biblica, che per i credenti è la sola custode delle origini e del destino dell’uomo, torna a farsi immagine, grazie a un lodevole sforzo di transcodificazione nell’ultimo lavoro del fotografo Enrico Nicolò. Il suo “racconto”, che si ispira in maniera fedele ad alcuni passi tratti dai Vangeli, si focalizza quasi esclusivamente sulla figura di Gesù e dei suoi discepoli, nonché sul loro cosiddetto “ministero itinerante”, svoltosi in gran parte nella Galilea, attorno al Lago di Genèsaret, nella Samaria e nella Giudea.
D’altronde la natura ostensiva della fotografia, il suo essere in altre parole una messa in mostra, si adatta bene all’intento di dare un volto all’ineffabile, di tradurre in immagine la doppia natura storica e trascendente di Gesù; Franz Kafka lo aveva definito un “abisso di luce”, per sottolinearne l’aspetto spirituale, ma anche anticipandone la qualità per così dire “fotografica”. Tuttavia, lungi dal privilegiare ambientazioni realistiche, ogni scatto è reso da Nicolò attraverso la tecnica dello sfocato. Così facendo, in un alternarsi di campi lunghi e lunghissimi, la dilatazione delle forme sembra voler scaturire dal tentativo di trasporre e rappresentare la realtà trascendente di Dio.
In un mondo irrimediabilmente votato a un laico razionalismo, conforta che un artista si volga verso il sacro per ascoltarne gli echi, forse nel tentativo di riscattare l’uomo dall’insensatezza di un vivere puramente biologico e utilitaristico. Infatti, per mezzo di questa intuizione estetica, lo sfocato appunto, Nicolò ha saputo rendere manifesta la vicinanza della parola divina, cercando con le proprie fotografie di riempire lo spazio che costituisce la distanza da quel mistero di cui ogni poeta e artista ha chiara percezione.
Annarita Curcio
Annarita Curcio, La distanza dall’ineffabile, in “Enrico Nicolò, Sgridò i venti e il mare – Intuizioni di immagini dai Vangeli, Palombi Editori, Roma, 2013”, pag. 80.